Scritto da: MAT2020

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Autore: Alberto Sgarlato

 

Claudio Milano ManifestAzioniMusic Force/Egea Music, 2023

 

 

 

Partiamo da una premessa fondamentale: la musica di Claudio Milano è tutt’altro che di facile assimilazione. Ma del resto, dove mai starebbe scritto che la musica, intesa come vera Arte e non come mero intrattenimento, debba essere rapidamente ed epidermicamente “masticabile” e “digeribile”?

Adesso, però, facciamo qualche passo indietro: gli estimatori del rock progressivo più sperimentale e raffinato sicuramente abbineranno il nome e la voce di Claudio Milano a diversi progetti, come Nichelodeon, InSonar, Adython.

Nei suoi percorsi solisti, però, Milano va ben oltre qualsiasi etichetta di band e di genere: una vita intera dedicata allo studio delle potenzialità vocali e un curriculum di formazione che va dalla lirica al jazz, dalle diplofonie asiatiche alle applicazioni della voce in musicoterapia. Un percorso che ha visto Claudio Milano collezionare negli anni premi e riconoscimenti.

E tutto ciò è ben documentato nelle 21 tracce di questo “ManifestAzioni”, album dal vivo che raccoglie numerose performance dell’artista in un lasso di tempo di 12 anni, dal 2011 a oggi.

 

 

Già il titolo, così come è scritto, con questa alternanza di maiuscole e minuscole, richiama alla mente la grafìa di quel celebre “Are(A)zione”, disco dal vivo degli Area. Ma le similitudini, oltre al titolo e al fatto che siamo di fronte a due pubblicazioni live, finiscono qui. Il timbro vocale di Claudio Milano non è infatti debitore di nessuno ma, viceversa, è qualcosa di unico e pienamente riconoscibile.

E questa voce è – ça va sans dire – indiscussa protagonista dell’intera opera. Milano canta nella lingua italiana di oggi e in quella del Medio Evo, esattamente come fa con il francese odierno e antico (diversissimi tra loro), in molteplici dialetti italiani e stranieri e persino in lingue surreali e incomprensibili, purché funzionali all’esigenza espressiva del momento.

Non possiamo elencare qui tutti i suoi “compagni di viaggio”, dal momento che le 21 tracce sono state selezionate tra centinaia di brani e di concerti, con formazioni sempre cangianti che annoverano nomi di spicco tra le eccellenze jazz, prog, folk e d’avanguardia italiane. Pertanto, è facile intuire che, se la voce è protagonista, comunque il solido supporto strumentale non è da meno. A cominciare dalla gargantuesca “cavalcata” bassistica della opener “Per causa – nostra”, traccia in cui il supporto basso/batteria domina la scena; la successiva “Dite” è talmente cupa e tenebrosa nel suo incedere che potrebbe sembrare un riff dei Black Sabbath trasfigurato in chiave pianistica; un sintetizzatore dalle sonorità simili al vecchio ARP degli Area introduce “Che il piacere è peccato?”, sopra il quale Milano dà prova delle sue capacità di utilizzare la voce come un didjeridoo. L’interpretazione “fiabesca” del cantato (basato su versi danteschi) su un delicato arpeggio di pianoforte e pochi tocchi di basso fretless fa di questa traccia una delle più “immediate” all’ascolto dell’intera opera.

 

 

C’è invece qualcosa di “marziale” nell’introduzione di “E se aprissi quella porta?”, altro brano che poi sfocia in una intensa e struggente ballata pianistica.

Ancora il piano, con bassi ostinati e ossessivi tra Banco ed ELP, fa da supporto alla voce in “Conta chi tenta!”, brano punteggiato anche da interessanti riff chitarristici di contrappunto al piano (sia acustico che elettrico).

Particolarmente commoventi, verso la conclusione del primo dei due dischi, il folk/jazz di “Cerniere” e l’omaggio al suo omonimo Claudio Rocchi di “Nostro padre ci aspetta”.

Il secondo dei due dischi si apre subito con la voce di Milano, sola, nuda, in “Madre pagana”. Dopo questa traccia “a cappella” nella quale ancora una volta l’artista mostra tutta la sua duttilità, inizia “Per causa nostra – II”, introdotta da Claudio con una citazione da “Stranizza d’amuri” di Battiato e impreziosita dalle distorsioni chitarristiche di Paolo Tofani degli Area.

“Surabaya Johnny” (brano tra i meno conosciuti del repertorio di Milva) è una grandissima, emozionante, toccante prestazione di musica/teatro con un testo di enorme spessore.

Ognuno dei 21 brani meriterebbe un’analisi dettagliata e approfondita. Perché dietro ciascuna traccia troviamo autori importanti, citazioni approfondite, ricerca vocale e strumentale, arrangiamenti complessi. Ci limiteremo ancora a menzionare “Nella torre delle aquile”, con la sua mirabolante introduzione pianistica e il folle, ipnotico, trascendentale, morboso gran finale di “SenseNonSex”. Ma il consiglio, ovviamente, è quello di ascoltare tutto il doppio album come un unico ed interrotto flusso di emozioni, tuffandocisi dentro al buio, in silenzio, in cuffia, per cogliere ogni minima sfumatura di quanto è stato inciso.