Rein

Più collettivo artistico che semplice gruppo musicale, i Rein sono composti da Gianluca Bernardo (voce e chitarra acustica), Luca De Giuliani (chitarra elettrica), Claudio Mancini (chitarre e organo) e Pierluigi Toni (basso e contrabbasso). Cresciuti insieme sul finire degli anni '90, sperimentano un nuovo modo di produrre e promuovere la musica, ispirati dal principio fondamentale della condivisione della cultura. Questa scelta fa sì che possano contare sul sostegno di un vasto pubblico, nonchè sull'attenzione dei Media e sulla collaborazione di numerosi artisti. Fieri di essere indipendenti da qualsiasi etichetta discografica, pur non servendosi di un sistema di distribuzione classico, vendono migliaia di copie semplicemente grazie al passaparola tra i loro sostenitori.

Con diverse centinaia di concerti alle spalle, i Rein si distinguono per la loro intensa attività live, nonchè per la capacità di portare la propria musica al di là del confine stabilito dal palco. Scavalcando la linea che divide l'artista dal pubblico, può capitare di vederli suonare per le strade di mezza Italia, sui tram di Roma o nel retro di un vecchio furgone su una piazza inondata di gente durante un carnevale. Al tempo stesso riconosciuti come una delle realtà più interessanti del panorama indipendente, compaiono nel calendario di importanti festival internazionali, accanto ad artisti quali Patty Smith, Placebo, Kraftwerk, Aphex Twin, Ska-P e Tracy Chapman.

La musica dei Rein è figlia della globalizzazione e del métissage. Profondamente aperti ad ogni contaminazione, si muovono senza sosta tra universi musicali agli antipodi, per non rinchiudersi mai in un genere definito. Folgorati dall'esempio dei Mano Negra, lo reinterpretano con i loro strumenti, per cui i suoni della tradizione popolare italiana e slava sposano i ritmi in levare, che si mescolano a loro volta con il rock e il punk inglesi. A caratterizzare ulteriormente il tutto, è la ricercatezza dei testi di Gianluca Bernardo, dovuta alla grande influenza di Fabrizio De Andrè e del folk americano, primo su tutti Bob Dylan.
 
 
In una Babilonia di plastica e cemento, dal 1999 i Rein suonano e attraversano l'Italia in lungo e largo a bordo di una vecchia macchina diesel. Una storia lunga chilometri, fatta di autogrill sospesi nella nebbia, portapacchi strabordanti, pacchetti di sigarette accartocciati, bazar ai bordi della ss16 e binari ai lati della 106; una storia bruciata tra gli ultimi nei privè dei primi. Poche brandine e tanti sacchi a pelo che noi ci sappiamo adattare; caffè a portar via che magari poi ci viene sonno; che l'E45 è meglio dell'A1 perché non costa, mentre la Salerno-Reggio va bene comunque, tanto è l'unica. Qui, dove la periferia è anche il centro di tutto e la musica resta l'unico modo per parlare di felicità e di tristezza allo stesso tempo, i Rein, incrocio ferroviario tra Messico e Ungheria, Francia e Irlanda, prendono e partono con poche certezze, poca benzina e qualche punto fermo stampato ai cigli delle strade. Libri francesi, musica latina e risorse slave, futbol e chitarre spaccate, qualche bottiglia di birra messina, quando si trova. E se povertà e ricchezza si confondono, la multiculturalità è un dato di fatto e non un'opinione. Qualcosa resta, tra tanta storia e poca identità. Qualcosa resta. E allora questo qualcosa cerchi di farlo entrare in qualche modo nel portabagagli e di portarlo in giro, per raccontarlo. Per raccontare come avviene che da mille madri diverse nasca un solo figlio, triste come la soledad, fedele come le steppe del Connemara, feroce come il sud, poetico come l'est. Quaggiù, in provincia di Babele, qualcosa resta.