BLUR - The great escape

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Scritto da: Vanoli

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CD Remember 9 BLUR "The great escape"
 
 
“The great escape”, opera musicali tra le più esemplificative per quanto riguarda quel genere etichettato a metà anni ’90 come Britpop, sin dal titolo vuole anche dare delle chiavi di lettura diversa.

I Blur cominciavano timidamente ad affrancarsi dal clichè della brit band, la grande fuga evocata dal titolo indica proprio questo, sebbene il successo sia arrivato con l’album summa del genere (il precedente “Parklife”) e per quanto in realtà, al di là delle buone intenzioni il disco sia ancora annacquato dalle irresistibili melodie sixties, si intravedono tra le pieghe delle canzoni alcune novità stilistiche.

L’introduzione è affidata all’energica “Stereotypes”, dalle ritmiche “funk rock”, per poi passare alla celebre “Country house”, la vincitrice della battle of the band contro gli Oasis, un singolo all’insegna del divertimento e del puro britpop, nonostante il testo alla fine rivendichi tematiche sociali che si riflettono in tutti i brani (in questo caso, torna il tema della fuga: questa volta dalla frenesia della città per accasarsi in campagna)… l’altro singolo dal clamoroso successo fu la ballata “The Universal”, un po’ debole rispetto a episodi precedenti come ad esempio “To the end” o “This is a law” ma comunque efficace (e in ogni caso non si tratta di una love song).

Di pop rock si tratta, eppure i Blur si permettono di giocare con i suoni, di declinarne le varie forme: da quello leggero e citazionista di “Charmless man”, ballabile al punto giusto a quello più intimista e malinconico di “He thought of cars” e “Fade Away”. Gli arrangiamenti sono molto ricercati, c’è un uso adeguato di archi, fiati e ottoni.

Poco convenzionali appaiono ad un primo ascolto “Top man” e “Mrs Robinson’s Quango”, entrambe corrodate da un testo piuttosto acido.

“Yuko and Hiro” , soffice ballata in chiusura, tradisce l’amore di Damon Albarn per l’Oriente, terra amata dal leader della band insieme alla suggestiva Islanda, che farà capolino nei dischi successivi.

“Entertain me” e “It could be you” hanno un vago retrogusto pop punk, mentre “Dan Abnormal”, anagramma del nome del laeder, altro non è che un ritratto in musica dell’artista stesso.

Piuttosto bucolico “Ernold same”, quasi folk rock e lontano dalle sonorità edite fino a quel momento dai Blur.

Si stavano intravedendo le diverse anime musicali del gruppo, se vogliamo anche una maturazione dei componenti, che all’epoca dell’esordio studiavano ancora all’università.

Se Alex James, il bassista con l’aria da belloccio, si stava godendo alla grande i frutti del successo appena scoperto e arrivato in modo clamoroso (arrivando a farsi importare gran parte dello champagne prodotto per l’Inghilterra) e il batterista Dave Rowntree rimaneva in disparte, i due compositori principali, il già citato Albarn e il geniale chitarrista Graham Coxon (amici sin dai tempi della scuola) si stavano approcciando alla loro condizione di vita (sociale, relazionale e, perché no? Economica) in modo del tutto opposto, creando non pochi attriti e malumori all’interno del quartetto.

Se Damon Albarn proveniva da una famiglia progressista, di pseudo artisti ed era diventato da tempo un fenomeno popolare per i gossip d’oltremanica (causa la sua chiacchierata love story con Justine Frieshmann delle Elastica), Coxon invece mal sopportava le pressioni dei media e l’interferenza di questi nella sua vita privata, volendo essere considerato unicamente per la sua arte.
Tensioni e malesseri che non inficeranno nel percorso immediato della band, tanto che arriveranno altri due album, quelli sì davvero di svolta, l’omonimo “Blur” e “13”, all’insegna di un rock alternativo di chiara matrice americana (quindi agli antipodi del britpop) e relativi riconoscimenti da più parti del globo ma che porteranno poi i due leader a dividere le loro strade artistiche, fino ad un’estemporanea (ma altresì entusiasmante) reunion per una serie di concerti estivi, culminati a Glastonbury 2009, dinnanzi ad una folla letteralmente in delirio.