Alessia Tondo - Sita
Ipe Ipe Music, 2021
Scrivere dell’artista pugliese Alessia Tondo e del suo album d’esordio mi riempie di gioia, lo dico a costo di sembrare esagerato o fanatico: il tutto infatti si spiega, andando a scandagliare le emozioni che l’ascolto della sua voce mi ha sempre provocato.
Seguo Alessia da tantissimi anni, so che anche questa affermazione pare un’iperbole, essendo la stessa ancora molto giovane, eppure di certo i più appassionati di musica folk sapranno bene come i suoi primi passi musicali li abbia percorsi quando era ancora una bimba, col suo nome salito agli onori delle cronache in particolare dal 2004, in cui divenne a soli tredici anni la voce solista dell’Orchestra della Notte della Taranta.

Una predestinata, insomma, un’enfant prodige piombata nel mondo delle sette note a rinverdire i suoni della tradizione della sua magica Terra, e in grado col suo canto di incantare letteralmente.
Se ai tempi dei Mera Menhir seppe già stupire cantando insieme alla nonna Immacolata (figura determinante per la sua formazione), fu prestando la propria voce nella bellissima “Le radici ca tieni” dei Sud Sound System che non poté in alcun modo passare inosservata.
Da lì la giusta dose di curiosità e la voglia di agire in questo affascinante campo – che è il macro mondo della musica popolare –, sperimentando in prima persona le favolose commistioni tra antico e moderno, non si sono mai fermate, corroborate da un talento davvero innato e inconfondibile.
Eclettica e cangiante, l’abbiamo vista così protagonista in egual modo nel Canzoniere Grecanico Salentino o a fianco al compositore Ludovico Einaudi, esperienze in cui la sua voce si fondeva efficacemente nei rispettivi contesti e diveniva essa stessa strumento, per la fantastica espressività e la naturale inclinazione con la quale si trovava a interpretare scenari e orizzonti musicali sempre diversi, i quali assumevano ancora maggiori suggestioni proprio grazie ai suoi brillanti interventi.
Pensiamo in tal senso al peso specifico della sua parte vocale in “Nuvole bianche”, noto brano di Einaudi reso in questa maniera ancora più indimenticabile.
Eccola giunta, quindi, finalmente, dopo tanto creativo seminare, alla prova da solista in veste di cantautrice, per un lavoro che mette in luce, se possibile ancora più chiaramente, le sue notevoli qualità.
Questa raccolta di otto nuovi pezzi, evocativa sin dal titolo “Sita” che, nell’indicarci il frutto della melagrana vuole simboleggiare l’augurio di una vita nuova, fatta di incontro e condivisione, è in tutto e per tutto rappresentativa della sua autrice, la quale è riuscita a esprimere al meglio se stessa in ogni episodio.
Canzoni nate sì in solitudine, ma pronte ad accogliere e farsi accogliere da anime predisposte a scoprire la bellezza nelle piccole cose, quelle del quotidiano, imperniate di solidi valori e storie personali da cui attingere.
Alessia Tondo si è guardata dentro, non abdicando la matrice folk ma innestandola in un tessuto “d’autore”, e finendo altresì per abbinare la tradizione con la contemporaneità, senza rinunciare alla sua essenza salentina. Valga come fulgido esempio al riguardo il mesmerico incedere del singolo “Aria”, dove si incrociano voci e atmosfere.
E’ un disco che si fa apprezzare in toto e il cui unico limite sembra constare nel fatto che dura solo 21 minuti e poco più, necessari però al fine di non disperdere nemmeno una particella del suo contenuto.
Introdotto da “A pucundria”, ripresa e arricchita a metà dell’opera (nella traccia “A pucundria rimedio”), si delinea in tutto il suo valore mediante la candida dolcezza di una “Me putia basta’” intrisa di poesia, in cui fa capolino anche il delicato violino del compagno d’avventure Mauro Durante, autentico asso del Canzoniere Grecanico Salentino.
Dopo il trip etereo della già citata “Aria”, piombiamo in un cuneo avvolgente formato dalle malinconiche e profonde note di “Pacenza”, sorretta da un magnifico sound di chitarra, minimale eppure capace di ammaliare.
Il rimanente pezzetto di viaggio è segnato ormai da questo mood vivido e struggente al tempo stesso, in momenti emblematici come “Cacciala fore”, quasi terapeutica con i suoi accorati versi, e nella passione stringente dell’ode “Sta notte”, impreziosita oltremodo dal violoncello di Redi Hasa.
Immersi in questi languidi quadretti di vita vissuta o desiderata, ci si può abbandonare silenti al candore della paradigmatica “Filastrocca”, dove la Tondo non ha bisogno di alcun supporto o artificio sonoro per comunicarci l’ultima parte di se’, quella più autentica forse, laddove basta la sua voce (pulita e sinuosa) a saturare l’aria, colorando il cielo di un azzurro accecante.
Prendetevi il tempo di assaporare pian piano questo album, ne uscirete quanto meno alleggeriti nel cuore e scevri da quelle negatività che la società odierna si diverte, talvolta con troppa veemenza, a gettarci addosso.