Il lungo viaggio di Alberto Radius

Scritto da: cspigenova

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Quando Radius era coinvolto nella Battiato Factory (foto tratta da dikdik58.altervista.org)

 

Radius unico, in tutti i sensi: l’unico hendrixiano targato Italia che, negli anni Settanta, riprendeva parte di quello stile ma imbracciando una Gibson Les Paul del ’56 e non una Fender Stratocaster. Nella Formula Tre – la famosa appendice rock del credo battistiano – non c’era il bassista, ma lui con la sua chitarra e da infaticabile sperimentatore si divertiva ad utilizzare effetti che abbassassero l’ottava del suo strumento a sei corde (in realtà una voluta lacuna timbrica colmata anche dai bassi dell’Hammond di Lorenzi).

Poi nel 1972 giunse quell’esordio solista esplosivo come la copertina che lo ritraeva seduto ai bordi di un frigorifero, nel bel mezzo di una deflagrazione di pelati in scatola. Un disco su cui mi piacerebbe ritornare con maggiore puntualità analitica, data la ricchezza musicale di un rock istintivo con una vocazione mista tra il progressive e quella fusion che, poi, lui non è che amasse alla follia (chiedete a Bob Callero). Eppure dalle sue dita uscirono prodigi irripetibili nell’istantaneità del momento free in sala: crea dal nulla un power trio alla Cream con Di Cioccio alla batteria e Piazza al basso (Prima e dopo la scatola) oppure gioca ai Led Zeppelin (Rock n. 1) con Gianni Dall’Aglio, Walter Bravi e Alberto Valli; regala un blues – imbellettato dal sax soprano di Johnny Sax – alla voce di Demetrio Stratos (To The Moon I’M Going); gli Area – prima che uscissero allo scoperto un anno più tardi – lo accompagnano in una composizione strumentale alla Mahavishnu Orchestra dal titolo profetico (Area); insieme Vince Tempera scrive Il mio cane si chiama Zenone, vivace momento blues rock quasi emersoniano con Ellade Bandini alla batteria. Da non trascurare Radius, frammento di improvvisazione per chitarra elettrica tra mille effetti e sorprese nazionali (non c’è l’hendrixiano inno americano ma una citazione della sigla finale delle trasmissioni RAI tratte dal Guglielmo Tell di Rossini).

Il passo successivo fu il supergruppo Il Volo, testimone di due album  assai raffinati (Il Volo e Essere o non essere), da cui emerge non solo il Radius virtuoso di chitarra, ma anche il cantautore in grado di esprimere un altro personale talento.

Dopo questa avventura, durata dal 1974 al 1975 (sotto l’occhio vigile di Battisti alla Numero Uno), Radius passa alla CBS e CGD dando alle stampe tre ottimi lavori (Che cosa sei?, Carta straccia e America Goodbye) con tanto di hit al seguito (Nel ghetto nel 1977): scriverà interamente le musiche, mentre i testi saranno affidati ad Avogadro e Pace (sodalizio che durerà fino al 1981). Da non trascurare Gente di Dublino del 1982, 33 giri cresciuto in seno alla factory di Battiato che vede la collaborazione di parecchi strumentisti del giro (erano i tempi de La voce del padrone e Radius aveva già suonato sia in L’era del cinghiale bianco, sia in Patriots).

Radius, come si evince da quanto accennato poc’anzi, ha lasciato il segno come turnista in diversi dischi della scena pop italiana: oltre a quelli di Battisti, si annoverano LP di Alice, Faust’O, Camerini, Giuni Russo, Finardi, Fiordaliso e Grignani.

L’evoluzione del suo stile lo ha visto partire da profonde radici blues elettriche per poi avvicinarsi ad una sensibilità più sofisticata che non ha escluso il contatto con orizzonti disparati e le sue canzoni sono lì a raccontarlo; c’è veramente di tutto:  il funky (Nel ghetto), il Philly Sound (America Goodbye), la discomusic (Il poliziotto), il mood della colonna sonora (Patricia), il rock acustico Who oriented (prendete l’incipit de Il respiro di Laura) e la musica latino-americana di estrazione brasiliana (Celebrai).

 

(Riccardo Storti)