Il giovane favoloso
(2014), di Mario Martone
L’opus ottavo di Martone, già regista di Morte di un matematico napoletano e Noi credevamo, sembrava antispettacolare, nel senso che in tempi di crisi come questi chi spenderebbe due ore e un quarto per andare al cinema e rischiare di incupirsi al conoscere l’infelice vita di Giacomo Leopardi? Eppure la nomination al Leone d’oro e la standing ovation di dieci minuti al Festival di Venezia più gli incassi record dimostrano tutto il contrario. Difatti, al di là delle nozioni e dei libri di scuola, Leopardi è una figura affascinante per l’acuto pensiero, la delicata sensibilità e un talento che si è sempre scontrato con gli affanni fisici e psicologici senza mai venir meno; è per questo che la potenza delle sue opere vive e permane tuttora. Martone era reduce da una versione teatrale delle Operette morali e perciò sembrava il più adatto a portare la sua vita sullo schermo: pronostico azzeccato. Certamente si può dissentire su certe scelte di carattere narrativo (la scena del bordello, ad esempio) o sul fatto che alcuni brani di Sascha Ring (in arte Apparat) rischino di stridere con l’ambientazione, ma per il resto è un ottimo lungometraggio: ricostruzioni accurate, immagini con fotografia impeccabile e attori di primo ordine tra cui spicca Massimo Popolizio nel ruolo del severo padre, il conte Monaldo. E poi c’è lui, il motivo per cui questo film andrebbe proiettato nelle scuole: Elio Germano, alias il protagonista. Non solo è fisicamente somigliante a Giacomo, ma è anche entrato in completa simbiosi con il personaggio, soffrendo e incurvando la schiena con lui fino a donargli la propria voce nel rappresentare l’ispirazione che lo coglie nell’ispirazione dei canti (L’infinito e La ginestra in particolare). Infine, per rispondere alle principali critiche mosse al film: 1) è vero che Martone, partenopeo doc, ha preferito concentrarsi sul lato filosofico e ironico di Giacomo e sul soggiorno a Napoli negli ultimi anni della vita, ma non per questo si riscontrano errori o carenze nell’analisi della giovinezza a Recanati e del soggiorno a Firenze;
2) la produzione di Giacomo è sterminata, un mero elenco della creazione di tutte le opere sarebbe stato noioso e sterile, perciò è stato necessario tralasciare certi aspetti;
3) Elio Germano può non piacere, ma è stato oggettivamente convincente in un ruolo così difficile e non ha certo avuto bisogno di “espressioni beote”, come pure è stato scritto.
Ma in fondo critiche simili si facevano vent’anni fa a Charlot di Attenborough e ad altre biografie cinematografiche, quindi perché stupirsi? D’accordo, la produzione Palomar/Rai Cinema rischia di renderlo per certi aspetti televisivo e la sceneggiatura non sarà da Oscar, ma almeno si può affermare che il cinema d’autore ha ancora molto da insegnare. Almeno qui in Italia.
Voto: 8/10