°Four wedding and a funeral – I cinque album decisamente più importanti del 2010

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Scritto da: Alberto Calorosi

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    Deep purple – Burning deeper

Fate ciao ciao a Don Piazzato Airey, il grande gregario del rock (oops, si dice sessionman). Giù il cappello (la bandana?) al cospetto di Sua Maestà Roger Ditalino Glover. Massimo rispetto per Steve Dentiera Morse, quando ti leverai quel cazzo di sorriso dal muso non sarà mai troppo presto. E last but not least... wave your last goodbye a Ian Rinite Gillan.

Coi soldi dell’assicurazione abbiamo tirato su quattro entreneuses sui quaranta col culo sporgente, le labbra carnose e le tette rifatte, un bel barcone da venti metri pieno di nafta e champagne e via fuori dalle acque territoriali questa rinsecchita cover band dei Deep purple. Sail away tomorrow? Sarà meglio today.

A trentasei anni dallo scioglimento, ma credetemi ad altrettanti dalla pensione, quattro quinti della MK3 si ricostituiscono attorno a Ian Margherita Hack Paice per buttare fuori il loro album più feroce.

Esordio col botto: Fire, The last notch e Seeds of evil. Tre pezzi ruminanti che fanno apparire Burn come una scialba ballad hairmetallona. O pensiamo alla sublime The element, sorta di Mistreated nuovo millennio. O al southern rock contagioso venato di funk della title track. O alla funerea cover di Stargazer, qui in versione solo strumentale, umile e doveroso saluto all’amico Ronnie Dio.

Le parole di Glenn Hughes: “Eravamo a casa di Richie e girava uno stroppione grosso così. A un certo punto Richie partì col riff di Stargazer. Gli andammo dietro tutti. Poi scoprimmo che l’impianto era acceso e aveva registrato tutto. Allora Richie se ne uscì con questa cosa di metterla nell’album così com’era. Per un po’ ci guardammo gli uni cogli altri. Cercavamo di capire a chi gli toccasse di passare il resto della nottata a cercare di fargli cambiare idea. Poi decisi di voltarla sul sentimentale e saltai su: ‘Nessuno potrà mai cantare Stargazer come faceva Ronnie’. Richie annuì serio. ‘Guida maiale vuoi vedere che l’ho convinto?’, pensai. Il giorno dopo Richie aveva tolto la mia traccia vocale dal master. Sapete? Ha quasi settant’anni ma Richie è ancora un gran pezzo di merda. Comunque il pezzo funziona. E l’album è semplicemente grandioso”.

Stessi toni nelle parole di Ian Paice: “Semplicemente oltre il rock, semplicemente il miglior album di sempre dei Deep purple. E se ve lo dico io che sono l’unico che li ha incisi tutti. Mi ha fatto venire voglia di fracassare qualcosa. Non vedo l’ora che cominci il tour”.

E Jon Lord: “Chi avrebbe detto che a settant’anni suonati mi capitava una cosa del genere? Saranno vent’anni che non mi scopo una groupie”.

Caustico Blackmore sul rifiuto di Coverdale di unirsi al resto della band “Arrabbiato io? Macché. Finalmente mi sono levato dalle palle Candice e tutte le sue cazzate medievali. Vaffanculo lei e la sua collezione di ghironde. Ma sapete? Quella zoccola faceva dei pompini spettacolari. Ho idea che per un po’ David non lo si vedrà in giro”.

    Crosby, Stills, Nash & Young – Redemption

A undici anni dall’acclamato Looking forward, questi quattro vecchi hippy imbolsiti e catarrosi sono ancora capaci di accendersi un chillum e consegnare alla posterità un album strepitoso. Redemption è un album innovativo, nostalgico, istintivo e tecnicamente perfetto. Oltre al resto, sopra il resto, l’inconfondibile coro nell’impetuoso finale di We smoke, la nuova Judy blue eyes e la performance da brivido di David Crosby in Almost lost my hair.

E’ proprio David Crosby a concedersi ai microfoni di Yastaradio.

“Ciao David e benvenuto”.

“Beeeuurk”.

“David, com’è avvenuto l’incontro con Neil Young?”

“Eravamo in giro col furgone e avevamo finito la birra. La casa di Neil era il posto più vicino dove se ne potesse reperire un po’”

“Com’è venuta l’idea di fare un nuovo album?”

“Quel taccagno di merda ci ha fatto vedere le birre e poi ci ha chiusi dentro a chiave e ha detto che potevamo uscire solo dopo che avevamo finito di incidere tutte le canzoni. Noi dentro a sgobbare e lui lì a rincoglionirsi coi suoi stupidi trenini elettrici. Giuda laido, odio quel pallone gonfiato. Spero che un giorno si fulmini”.

“Come vi rapportate con l’ingombrante ruolo iconico che ancora ricoprite nella controcultura hippy?”

“Senti un po’, ma qui di birra ce n’avete sì o no?”

    Page, Plant & Jones – Fifty-two days to Timbuktu

Con la sola eccezione di Ermes, il meccanico notturno della Columbus di Martorano, ogni essere appassionato di rock e dotato di un minimo di raziocinio ha trepidamente atteso questo momento ininterrottamente per trentuno anni. Ora l’attesa è finita e Fifty-two days to Timbuktu, il nuovo album dei tre Zeppelin superstiti è finalmente disponibile.

“C’era l’idea di riprendere il discorso interrotto trent’anni fa con In through the out door. Continuità, quindi, ma anche novità. In through the out door era un album di transizione. Ma per dove? Dopo trent’anni abbiamo finalmente una risposta: quella transizione approda proprio qui. Ecco, vedila un po’ come il nostro album più new age”, commenta John Paul Jones.

“Nonostante il successo mondiale, il sound dei Led zeppelin è sempre rimasto piuttosto impermeabile alle suggestioni etniche. Qualche mese fa mi ritrovai nel sud del Marocco, in mezzo al deserto, attorno a un fuoco a canticchiare nenie arabeggianti assieme a un gruppo di nomadi berberi. Maledizione, quella melodia era più suadente di qualunque All my love e il ritmo più indiavolato di mille Immigrant song. Compresi che il nuovo album avrebbe dovuto suonare così. Molto etnico con un pizzico di zep-folk”, replica annuendo Robert Plant.

Caustico Page: “Non si tratta altro che di fottutissimo rock n’ roll”.

Ebbene?

Ebbene, nonostante la monolitica comunione d’intenti, l’album fa semplicemente cagare. Page strimpella come una cover band dei Firm, Plant canticchia come se avesse ficcato la testa dentro l’oblò di una lavatrice e le orchestrazioni di John Paul Jones sono pacchiane come certi album dei Tangerine dreams. Brani come Dune downhill, Underneath the immense sky e The ballad of the horny camel dovrebbero immediatamente entrare a far parte del repertorio di pippaioli del calibro dei Kings of leon o quegli altri, lì, che non ricordo più il nome. Black motor qualcosa.

E adesso?

“Adesso c’imbarcheremo per un tour mondiale” dice Page

“Finché siamo caldi pensavamo di incidere subito un altro album” fa eco Jones.

“Adesso un cazzo. Credo che tornerò in Marocco a godermi i soldi che ho guadagnato. Sai, c’è pieno di bei maschioni, laggiù” ribadisce entusiastico Robert Plant facendomi l’occhiolino.

    Vasco Rossi – Quelle ancora lì che non ho poi mica capito

A distanza di trent’anni la vedova dello sfortunato Massimo Riva consegna alla EMI una consunta cassetta da quarantasei con otto pezzi. Il nastro diventa immediatamente il caso editoriale dell’anno. Si tratta di otto outtakes dal secondo album di Vasco Rossi Non siamo mica gli americani.

Canzoni con la briglia sciolta, una poetica scalena che sgorga e s’intreccia indissolubilmente con la chitarra melanconica e scordata di Riva in un crescendo di pathos e nostalgia. Tra tutte segnaliamo il blues malinconico di Le canzoni di Guccini fanno cagare al cazzo, sorta di apologia del cantautorato intellettualoide decadente tardo-seventies, da cui Vasco prende intelligentemente le distanze, ma a modo suo, cioé con una tenue venatura di surrealtà alla (per quello che ho da fare) Faccio il militare. O la superba Be’ allora facciamoci su un bel cannone, oggi come allora coraggiosa presa di posizione contro certi moralismi purtroppo tanto attuali oggigiorno quanto trent’anni fa. O la divertente Se non me la dai ti picchio in testa con questa bottiglia di birra, una ballata intelligente e ironica sul rapporto di conflittuale fascinazione da parte dell’autore nei confronti dell’universo femminile. Sorta di gustosa germinazione di quella che sarebbe poi diventata l’immarcescibile Va be’ se proprio te lo devo dire.

Insomma: otto canzoni, in una sola parola, meravigliose.

Propiziata dal suo solito culo, Yastaradio ha incontrato Vasco Rossi sull’autobus.

“Vasco!”

“Eh, ou, ce l’ho il biglietto. Ce l’ho qui il biglietto”.

“Vasco, non sono un controllore. Sono un giornalista”.

“Ah, ou, un giornalista. Siete forti, voi, eh. Siete tutti delle bestie, voialtri”.

“Vasco, la decisione di pubblicare i nastri originali con tutti gli evidenti difetti invece di reincidere i pezzi è stata coraggiosa e stimolante per le folte schiere di fan, i quali hanno avuto modo di riscoprire un aspetto decisamente inedito di te. Un coniglio tenuto nel cilindro per quasi trent’anni, insomma. Vecchio volpone. Vuoi commentare questa decisione indubbiamente vincente?”

“Quella volta lì non c’avevamo mica voglia di fare un cazzo. Allora gli ho detto al discografico che se le incidesse lui, le canzoni e di smettere di telefonarmi. E poi gli ho attaccato il telefono. Eee sono uno scantato io. C’ho il pelo sullo stomaco. Orco cazzo di Giuda ladro, ma quella lì era mica la mia fermata?”

    Roger Waters – To the violent end

Dopo aver istillato nei fan tonnellate di perplessità con la sua inaccessibile prima (e possibilmente ultima) opera lirica, a diciotto anni da quell’Amused to death che ha sconquassato le coscienze della comunità rock, Roger Waters rivela la sua vena più intimista con questo pugno di ballate romantiche eppure mordaci, incorniciate da sonorità lunari ma moderne, con un occhio inevitabile al cuscino di venti sonori delle prime composizioni risalemti a oltre quarant’anni addietro.

“Roger, puoi raccontarci di cosa parla questo nuovo concept?”

“Ma quale concept? Dopo quarant’anni di concept mi sono rotto i coglioni e ho deciso di fare semplicemente un album di canzoni. L’elemento comune, se proprio vuoi vederne uno, è l’eterogeneità. Eterogeneità di suoni, di tematiche, di arrangiamenti”.

“Con una strizzata d’occhio ai Pink floyd...”

“E’ passato tanto tempo da allora. Anche le ferite più grandi col tempo si rimarginano perfettamente. Ora sono un uomo sereno, sai? Non credere che riuscirai a provocarmi con le tue insinuazioni”.

“Ma quali insinuazioni? Io dicevo soltanto...”

“Tu non devi dire un cazzo, mi hai capito? Tu non devi permetterti di dire un cazzo. Tu dei Pink floyd non sai un cazzo di niente, è chiaro? Brutto stronzo pallone gonfiato di un...”

“Roger, calmati, volevo solo dire che una canzone come Pink fly pink pig ricorda nel...”

“Pink fly pink pig non parla dei Pink floyd, pezzo d’idiota”.

“Ah, no? E di che cosa parla?”

“Quella canzone parla di quello stronzo di David Gilmour”.

“E che mi dici di Me and them? Mi era parso di capire che gli essi del titolo fossero proprio loro, i Pink floyd”.

“Vorresti smetterla, Giuda canchero? Ma chi ti credi di essere? Comunque, caro il mio genio, quella canzone non parla dei Pink floyd, se proprio vuoi saperlo”.

“E di cosa parla?”

“Di Wright, Mason e di quello stronzo di David Gilmour”.

“E Wish you were no longer here?”

“Quella invece è una ballata che ho dedicato al mio ex amico pessimo chitarrista”.

“Lasciami indovinare: David Gilmour”.

“Quello stronzo, esatto”.

“Un album eterogeneo, dicevamo”.

“Sì. Assolutamente”.