Caso - Tutti dicono guardiamo avanti
Que Suerte!/Klasproduction/In Limine/Fumaio, 2011
Secondo album per l’anomalo cantautore bergamasco Andrea Casali, noto con l’altrettanto anonimo pseudonimo di “Caso”.
Un cantante sui generis, certamente, che propone 9 pezzi omogenei tra loro, al punto da sembrare un unicum narrativo, ma che se ascoltati attentamente nascondono delle disuguaglianze, se non proprio a livello di testi (giacchè lì si vira sul “personalismo” e il microcosmo dell’autore stesso), almeno a livello di struttura musicale dei brani, caratterizzati in ogni caso tutti dalla preponderanza della chitarra acustica a scapito di un’elettricità del tutto assente.
Detto così, sembrerebbe un lavoro quasi folk, e difatti alcuni hanno tirato in ballo nientemeno che Nick Drake! Può essere, anzi, probabilmente sarà così, che il buon Andrea abbia tra i propri numi tutelari il tormentato artista britannico, ma lo dico a scanso di equivoci di “Pink Moon” qui non ci sono proprio le tracce!
Un cantaurato moderno ma in un certo senso che sembra rifarsi a stilemi antichi, come quando i primi De Gregori e Guccini, affilavano canzoni come lame nel cuore degli ascoltatori. Veri sfoghi artistici che, partendo da una prospettiva assolutamente individuale, tanto che Caso si svuota letteralmente pur di arrivare al cuore e alle orecchie del pubblico, mettendosi davvero a nudo, come nella “Aranciata Amara” in apertura, il cui aggettivo è ben associabile allo stato d’animo e all’inquietudine del cantante.
A differenziare Caso da modelli simili, valorizzandone l’accostamento iniziale, sono però le scelte lessicali, la vena poetica che sembra inaridita rispetto al disco d’esordio, che suonava più fresco, seppur palesemente ispirato a Vasco Brondi.
Lo dico sinceramente, differenziandomi così dalla maggior parte dei critici che hanno posto l’attenzione su questo nuovo disco, intitolato “Tutti dicono guardiamo avanti”: il vero limite di Caso sta nel voler scimmiottare il titolare del progetto de “Le luci della Centrale Elettrica”, non possedendone però il talento e nemmeno il carisma, quello che ti permette di declamare testi interessanti, anche se poco convenzionali (utilizzando immagini inconsuete e citazioni delle più varie), rendendole però credibili e cariche di significato.
Caso ci riempie le orecchie di un profluvio di parole e suoni (azzeccate alcune trame alla chitarra e gli inserti armonici), che non stanno in piedi da soli, zoppicano nell’insieme di brani che, seppur attestati di biografismi, risultano derivativi.
Certo, le melodie sono più dolci, meno nervose rispetto al ferrarese Brondi (pensiamo a due delle migliori tracce del disco: “Dimmi qualcosa in silenzio”, più introspettiva e matura, e “Fiato corto” dall’arrangiamento bucolico, molto caldo), ma resta il forte dubbio che, se non ci fosse stato il primo a tracciare una nuova via al cantautorato, probabilmente Caso non avrebbe interpretato le sue canzoni in questo modo.
In “Hopper” il testo, uno dei più interessanti del lotto, è “vomitato”, veramente sentito e credo possa essere questa la vera strada per Caso, considerando (e qui mi spiace toccare un punto dolente ma inevitabile) quanto faccia fatica a intonare canzoni propriamente dette.
La stonatura del cantato non può assurgere a “stile”, è piuttosto un limite enorme, che impedisce a canzoni di per sé intriganti (“Balena Bianca”) di risaltare nella sua bellezza. Alla lunga stride troppo e diventa fastidioso.
Un cantautore che è sostanzialmente è un enigma. Da una parte è palese che egli abbia delle idee e la voglia e la giusta ambizione di comunicarle a un pubblico, con il quale è in grado di entrare in empatia, ma dall’altra parte è necessario che faccia un ulteriore salto in avanti a livello stilistico, rifuggendo del tutto i modelli sopra citati. Più che un “diario in musica” gradirei sentire un lavoro certamente sincero ma pure aperto verso il mondo. Invece qui la chiusura (nel proprio strumento, nella propria stanza, nel proprio condominio) sembra elevata a valore.
Leggi qui l'intervista a Caso