AREA – Progressivi di periferia. Discografia ragionevole.
Costanti (scostanti) di un itinerario discografico:

1. Arbeit Macht Frei (1973): oltre il disco, il “manifesto”, l’icona. L’esordio di chi vuole tentare veramente un’”altra” strada, percorsi accidentati su mappe studiate: Storia attuale [Luglio, agosto, settembre (nero)] e metastoricità di frasi assurte a categorie (Arbeit Macht Frei). Ma anche la musica: ritmi balcanici, melodie mediterranee, riff tra jazz e rock. All’epoca ci si limitò a scrivere che questi Area erano gli ideali prosecutori italiani di quanto i jazzisti trasversali inglesi (Ian Carr e Nucleus, Soft Machine) stavano “buttando giù” ltremanica: un po’ poco per completare un quadro assai più complesso.

2. Caution Radiation Area (1974): due defezioni: Busnello lascia e con lui Patrick Djjvas che andrà a suonare nella PFM. Al suo posto Ares Tavolazzi. L’esercizio si fa più estremo, quasi al limite dell’incomunicabilità: sotto questi auspici nasce Caution Radiation Area. Cometa rossa riprende la sinuosità orientaleggiante di Luglio, agosto, settembre (nero), arricchito dall’omaggio vocale di Stratos alla terra di origine, la Grecia, che è anche un messaggio di affrancamento da qualsiasi diktat («Cometa chiudi la bocca e vattene via/Lascia che sia io a trovare la libertà»). Da qui parte un viaggio irto di momenti musicalmente difficili, perché “difficile” deve essere la lingua che racconta scomode verità quali lo sfruttamento (ZYG Crescita Zero) e l’alienazione (Brujo). Sino al culmine (attualissimo) di Lobotomia dove un VCS3, pilotato abilmente da Tofani, passa in rassegna le “siglette” del Sistema e, leggendo anche le “precauzioni” nelle note, ci accorgiamo che i tempi non sono cambiati di molto, alla radice del problema e del suono.

3. Crac (1975): Non fermarsi davanti a nulla e continuare a crederci. Nella frase di Buenaventura Durruti, posta ad epigrafe del disco, ci sono già tutti gli elementi di un “militantismo” programmatico, una scelta di campo ancora maggiormente precisata, puntualizzata. Opporsi, sapere di essere dalla parte del giusto con intelligente e razionale ottimismo («Guarda avanti non ci pensare/la storia viaggia insieme a te» – L’elefante bianco) e, soprattutto, agire («Districar le regole che/non ci funzionano più per spezzare/poi tutto ciò con radicalità» – L’elefante bianco). Il messaggio non esclude nessuno («Suono per te che non mi vuoi capire» – Gioia e rivoluzione) ma è soprattutto forte: è il caso di dire che non “sono solo canzonette” e che anche la musica può avere una sua trazione culturalmente eversiva («Il mio mitra è un contrabbasso/che ti spara sulla faccia…/ciò che penso della vita/con il suono delle dita si combatte una battaglia»).
La musica, appunto: dove la “voce” si deve fare sentire, lo stile è più comunicativo, un rock (apparentemente) facile (Gioia e rivoluzione); altrove si tentano veri e propri esperimenti radicali (Area 5) con rispettabili compagni di strada e d’avanguardia (Juan Hidalgo e Walter Marchetti). La padronanza dei vari linguaggi musicali emerge nettamente: gli Area giocano con accenti funky (La mela di Odessa), riprendono le amate scale orientali su sincopati (L’elefante bianco), creano riff poliritmici di ascendenza jazzistica (Megalopoli e Nervi scoperti) e frasi di ampio respiro per interessanti inserti solistici (Implosion).

4. Areazione (1975): Il live per eccellenza, il “meglio di” fuori dagli studi, in una cornice “concertistica” in cui comunicatività e alta qualità vanno a braccetto. Da antologia la versione jazzistica dell’Internazionale.

5. Maledetti (Maudits) (1976): Un concept dichiarato fino dalle premesse (“Progetto-concetto”), attualissimo, a quasi 30 anni di distanza, nonostante l’approccio “fantasocio-politico”. Dal punto di vista musicale va aggiunto che, mai come in questo disco, il gruppo si sia manifestato una vera e propria AREA aperta a collaborazioni esterne; la sezione ritmica originaria (Tavolazzi-Capiozzo) si alterna ad una più giovane (Calloni-Bullen), il parco percussioni si arricchisce di presenze particolarissime (i fratelli baschi Arzaniac e l’inglese Paul Lytton), al sax il jazzista free Steve Lacy. L’armamentario etnico, già copioso, si accresce (il kazumba suonato da una promessa del jazz italiano, Eugenio Colombo), così come quello elettronico di Tofani (dal VCS3 passa al Tcherepnin). In più, come se non fosse sufficiente, un quartetto d’archi dall’insolita disposizione (violino, viola, violoncello e contrabbasso). Colpiscono le irresistibili virate funkeggianti di Diforisma urbano, i vertici solistici di Fariselli al synth in Gerontocrazia e al pianoforte in Scum, l’espressività vocale di Stratos nell’incipit di Giro, giro, tondo, l’approccio sperimentale di Caos (parte seconda).

6. Event 76 (1976): prodotto da Claudio Rocchi e Tofani, Event 76 è un particolarissimo live, tenutosi nell’Aula Magna dell’Università Statale di Milano in formazione ridotta (Stratos, Fariselli e Tofani, coadiuvati da Steve Lacy al sax e Paul Lytton alle percussioni, già attivi nelle session di Maledetti). Perché live “particolarissimo”? Ma perché, più che di un concerto, si trattò di un happening. L’ispirazione venne da John Cage ed è lo stesso Patrizio Fariselli a raccontarci come nacque quella “ben strana serata” (cfr. “Contrappunti” a. I, n. 4).

7. 1978 (Gli dei se ne vanno gli arrabbiati restano): Ultimo atto. Per alcuni lo zenit qualitativo degli Area, sicuramente una testimonianza fondamentale, quasi un’eredità contenutistica: i tempi cambiano ma i “temi” no; il riflusso è dietro all’angolo, proprio per questo non bisogna abbassare la guardia e lo sguardo. Libretto ricchissimo di riflessioni/citazioni nel bene e nel male – ma anche al di là – (il poeta-bandito arabo Shànfara, Nietzsche, Breton, Freud, Sofocle, Aragon, Rousseau, Lacan). Pensare che nel 1978 il progressive era dato per morto: questo disco, al contrario, rivela invece una prospettiva realmente “progressiva”, capace di varcare e travalicare inutile steccati in nome di una capacità creativa senza precedenti. Si intravedono percorsi musicali già battuti, ma posti sotto una luce “nuova”: pensiamo al sound arabeggiante de Il bandito del deserto e di Interno con figure e luci, alle atmosfere uniche di Return from Workuta, al free jazz di Guardati dal mese vicino all’aprile, FFF e di Ici on dance!, alla mediterraneità sonora di Hommage à Violette Noziéres sino all’ironia calcolata di Acrostico in memoria di Laio e di Vodka-Cola (con tanto di gruppo punk al coro!).

Musicisti: Anton e José Arze (percussioni) 5; Hugh Bullen (basso elettrico) 5; Edouard Busnello (sax e ance) 1; Walter Calloni (batteria) 5; Giulio Capiozzo (batteria e percussioni) 1-7 (minus in 6); Eugenio Colombo (kazumba) 5; Patrick Djivas (basso elettrico) 1; Patrizio Fariselli (tastiere e clarinetto basso) 1-7; Steve Lacy (sax) 5-6; Paul Lytton (percussioni) 5-6; Demetrio Stratos (voce solista, organo Hammond) 1-7; Ares Tavolazzi (basso, contrabbasso, trombone, mandola) 2-7 (minus in 6); Paolo Tofani (chitarre e VCS3) 1-6.
(Riccardo Storti – parte seconda)